L’India si candida a essere il sostituto ideale della Cina in fatto di attrattività del commercio estero.
A poco sono servite le grandi proclamazioni di Xi Jinping dell’anno scorso, in occasione della sua terza nomina alla guida del Paese dell’ultimo Congresso del Partito Comunista: l’economia del Dragone sta inesorabilmente rallentando.
Nonostante si stimi che la crescita del PIL cinese cresca del 5,20% (leggermente inferiore rispetto a quanto promesso da Xi), i dati che emergono confermano il rallentamento dell’economia cinese. Addirittura le stime del 2024 prevedono un ulteriore calo. Nel 2020 il PIL fu caratterizzato da un calo drastico. E se in quel caso si trattava di un calo momentaneo, dovuto all’emergenza sanitaria, questa volta potremmo essere di fronte all’inizio di qualcosa di più grande.
Proprio per questo motivo, l’India sta assumendo un’importanza sempre maggiore nelle dinamiche politiche ed economiche globali, e le aziende di tutto il mondo, comprese quelle italiane, stanno spostando i loro sforzi dalla Cina all’India, consci delle grandi opportunità che questo Paese può loro offrire.
Dallo scorso aprile il mercato indiano è diventato il più popoloso al mondo (surclassando proprio il primato il Paese del Dragone), e rappresenta la sesta economia globale grazie all’impressionante tasso di crescita del PIL negli ultimi 10 anni (una media del 6,1% annuo secondo l’International Monetary Fund).
Inoltre, nei prossimi anni la sempre più ampia classe media godrà di maggiore capacità di spesa rispetto al passato, favorendo l’interesse nei confronti di brand stranieri: secondo il World Economic Forum, oltre 140 milioni di famiglie diventeranno classe media e altre 20 milioni entreranno nella categoria dei redditi più alti entro il 2030.
Ma cosa c’è dietro questa grande crescita? E davvero l’India può ora ambire a prendere il posto della Cina nel commercio internazionale?
Il primo elemento che ha preoccupato gli analisti internazionali, e che ha messo in stato di allerta le imprese italiane e dell’Occidente, è la velocità con cui Xi Jinping e il Partito Comunista Cinese stiano chiudendo molte porte al commercio estero, proclamando l’obiettivo dell’autosufficienza.
Per farlo, si passa per forza di cose per una chiusura all’Occidente e a un conseguente deterioramento dei rapporti con Europa e Stati Uniti. Ultimo esempio è stato il caso Taiwan, punto di grande interesse economico per la sua grande concentrazione di aziende impegnate nella realizzazione di chip elettronici.
La visita di Nancy Pelosi nell’agosto 2022, Speaker della Camera degli Stati Uniti, ha fortemente irritato il governo cinese, poiché è stato visto come un tentativo di ottenere un ritorno economico e politico dall’indipendenza di facto del piccolo stato nei confronti della Cina. E per tutta risposta, Xi aumenterà in ogni modo possibile la propria influenza sul territorio, investendo nel settore tecnologico favorendo la nascita e la crescita di aziende nazionali che opereranno sul mercato domestico. Ci sarà invece sempre meno spazio per le imprese straniere.
Ma c’è un altro elemento problematico per la Cina, ovvero la durezza con cui il governo applicò le restrizioni alla mobilità ogni volta che nasceva un nuovo focolaio di contagi Covid.
Un esempio calzante è la metropoli di Shanghai che, per gran parte del 2022, sperimentò un lockdown rigidissimo fatto di porte sbarrate, penuria di viveri e mancanza di libertà di movimento. Successivamente, verso la fine del 2022 abitanti di altre città, come Pechino, subirono nuovi lockdown imposti dal governo.
Tutto si fermò e, facendo così, l’economia non crebbe, come da effetto di una risposta fallimentare all’emergenza sanitaria. Ma Xi non ammetterà mai l’errore, per evitare ripercussioni negative sulla sua immagine e sulla sua condotta politica del Paese: tale situazione ha contribuito alla messa in fuga di molti investitori stranieri.
Infine, come se non bastasse, il terzo elemento che sta contribuendo al rallentamento della crescita economica, e al generale fuggi fuggi delle aziende internazionali su suolo cinese, è lo scoppio della bolla immobiliare. Il settore vale da solo il 30% dell’economia nazionale e proprio per questo il governo cinese ha erogato una liquidità mai vista prima per salvarlo.
Milioni di cittadini cinesi si rifiutano di pagare le rate dei mutui, essendosi indebitati per comprare appartamenti che non verranno mai ultimati dai costruttori, poiché nel frattempo sono falliti.
Da ultimo Cifi Holdings, con sede a Shangai, alle prese con insolvenze obbligazionarie e declassato dall’agenzia di rating Fitch a CC, dal precedente BB. E in pieno stile Evergrande, il governo cinese sta tentando di salvare anche questo colosso, aumentando il proprio debito e riducendo la crescita economica.
Ora sono chiari i costi associati a una Cina più orientata verso l’interno. Ed è chiaro che appare piuttosto improbabile che il PIL cinese subirà una crescita esponenziale, perlomeno nel medio periodo, soprattutto perché la guerra in ucraina potrebbe durare diversi anni.
Per questo motivo moltissime aziende hanno iniziato a virare e a orientarsi verso un Paese a forte crescita come l’India, che a sua volta si è accorta di questo corteggiamento e cerca di attirare le aziende manifatturiere. Il governo indiano ha dichiarato pubblicamente il suo desiderio di accrescere la filiera produttiva, offrendo incentivi ai produttori per la creazione di stabilimenti.
La campagna “Make in India“, per esempio, ha offerto 10 miliardi di dollari di incentivi volta a far sì che aziende internazionali sviluppassero, producessero e assemblassero aziende prodotti Made in India, creando un ambiente favorevole agli investimenti, sviluppando un’infrastruttura moderna ed efficiente e aprendo nuovi settori al capitale straniero.
Di riflesso, l’India ha scalato numerose posizioni nell’indice Ease of Doing Business, un indicatore che riflette la facilità di fare business in un determinato Paese: se solo nel 2016 il Paese si trovava al 130° posto, nel 2020 è arrivata al 63°, un balzo di 67 posizioni in solo 4 anni. Nel 2020, l’Italia era al 58° posto.
Non solo: l’India è anche un Paese che sta vivendo uno sviluppo digitale davvero interessante. Per quest’anno si prevede che gli utenti internet raggiungeranno gli 840 milioni di persone, cifra raddoppiata rispetto solamente a quattro anni fa (nel 2017 erano 422 milioni di persone).
Questa crescita va di pari passo con la presenza di una grande fetta di giovani cittadini in India, in continuo aumento. Se quella cinese è in netto calo rispetto a quella indiana (la popolazione in età lavorativa scenderà dai 930 milioni attuali agli 817 milioni nel 2050) in India salirà da 674 a 940 milioni.
Infine, storicamente l’Italia e l’India godono di forti relazioni commerciali e politiche. Già durante il Virtual Bilateral Summit di novembre 2020, nel corso del quale il Primo Ministro Indiano Modi e l’allora Presidente del Consiglio Italiano Giuseppe Conte hanno firmato una serie di accordi in alcuni campi strategici, come la produzione farmaceutica, il food processing e la manifattura, è stata un’ottima occasione per definire ulteriormente i rapporti bilaterali. Tali relazioni si sono consolidate durante lo scorso G20.
L’Italia infatti è, ad ottobre 2023, il terzo Paese europeo per esportazioni, dietro a Germania e Regno Unito, secondo un recente studio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. E imprenditori e manager indiani confermano questo trend e il forte interesse per i prodotti italiani:
L’Italia ha un nome molto positivo tra la comunità imprenditoriale indiana” sostiene Vishnu Krishna, Direttore di Octagona India.
“Molti indiani conoscono il vasto potenziale che la cooperazione Italia-India può offrire a entrambi i Paesi. Tutto ciò che è prodotto o progettato in Italia, di solito ha un’impressione positiva sul popolo indiano. Questo è il momento migliore degli ultimi anni che le aziende italiane possono sfruttare per entrare o espandersi nel mercato indiano”.
Il Subcontinente non è un mercato semplice (ammesso che ve ne siano) e ha ancora molta strada da fare, ma le riforme implementate dal Governo di Narendra Modi al fine di migliorare la facilità di doing business, contesto economico e competitività iniziano a vedersi in maniera eloquente.
Mentre poco più a nord, in Cina, il Partito Comunista Cinese continua a ignorare i problemi interni relativi alla crescita economica e chiudendosi sempre più su sé stessa. L’intervento politico e il giro di vite normativo andranno a complicare sempre più le prospettive di investimento di aziende straniere in Cina. Il tutto mentre il settore mobiliare continuerà a vivere, almeno nel breve periodo di grandi difficoltà prima di risollevarsi completamente.
Insomma, ora l’India si candida a essere il sostituto ideale della Cina in fatto di attrattività del commercio estero. E le aziende italiane, viste le saldi relazioni tra Italia e India, possono trarne grande vantaggio competitivo.
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